エピソード

  • Pulizia etnica per asfissia: il piano israeliano metro dopo metro
    2025/06/24
    Nel lessico militare israeliano, la parola “evacuazione” è diventata un eufemismo per deportazione forzata. Ogni comunicato dell’IDF inizia con lo stesso refrain ipocrita: “per la vostra sicurezza”. Poi segue la mappa, aggiornata in rosso. Ma quelle aree non tornano mai bianche. Gaza si restringe ogni giorno, e due milioni di persone sono stipate nel 18% del territorio. Le altre zone sono morte civile, marchiate come bersagli.
    Nel fango di Al-Mawasi o tra le rovine di Gaza City si vive senza spazio, senza acqua, senza pudore. C'è chi dorme tra i rifiuti, chi accende fuochi bruciando plastica, chi ha un solo gabinetto per 200 persone. Le donne smettono di bere per non dover urinare, evitano di partorire, smettono di allattare. Non è sopravvivenza, è umiliazione sistematica.
    Le Nazioni Unite parlano di emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di dignità ridotta in briciole. “Non tolgo mai il velo, nemmeno per dormire”, dice una donna, “è l’unica cosa che mi resta”. I bambini crescono senza scuola, coperti di punture, bruciati da acqua bollente o dal fuoco. Il sole cuoce le tende. Le zanzare escono di notte, le bombe anche.
    Non è la “guerra al terrorismo”. È la guerra alla vita. Un assedio che scava nella pelle, nei corpi, nella psiche. E l’Occidente guarda altrove, ancora una volta. Aspetta una tregua che servirà solo a ridisegnare meglio il prossimo inferno.
    Questo è il piano: svuotare Gaza centimetro per centimetro, fino a che nessuno possa più chiamarla casa. Senza sparare un colpo. Basta stringere il recinto. E poi fingere che non stia succedendo niente.

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  • Se Dio c’è, è steso per terra, accanto ai sacchi di farina
    2025/06/23
    A Gaza si muore così: con le braccia alzate verso un sacco di farina, colpiti alla testa, al petto. Almeno 474 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo. Sparati, dilaniati, lasciati nelle “zone di distribuzione”, che la Croce Rossa chiama “zone della morte”. È tutto documentato: numeri, feriti, testimonianze. Non è un incidente. È un metodo. La Gaza Humanitarian Foundation, sostenuta da Israele e Stati Uniti, ha sostituito l’UNRWA e piazza i punti di raccolta là dove si spara, dove passano i carri armati, dove si bombarda. Si chiama “aiuto”, ma è una trappola.
    Nel frattempo, Trump ha deciso di farsi valere. Ha ordinato il bombardamento dei siti nucleari iraniani, con i B-2 partiti dal Missouri che hanno sorvolato Israele. L’operazione si chiama “Midnight Hammer”: un nome da videogioco per un’azione reale. Tre impianti colpiti, migliaia di vite appese a un filo, la diplomazia calpestata. Sono stati gli Stati Uniti a farlo, ma con la regia di Tel Aviv. Netanyahu comanda, Trump esegue. E mentre il mondo guarda all’Iran, a Gaza si continua a morire nel silenzio. I colpi arrivano anche lì. I corpi si contano anche lì. Le urla si sentono solo se si vuole ascoltarle.
    Il Papa all’Angelus ha parlato di “grido di umanità che invoca la pace” e ha avvertito: “Non esistono conflitti lontani”. Ma Trump e Netanyahu, invece di ascoltare, si aggrappano a Dio per giustificare il sangue. Lo usano, lo sventolano, lo invocano. Uno dice “God bless America”, l’altro parla di “terra promessa”. Se Dio c’è, non è con loro. Se Dio c’è, è steso per terra, accanto ai sacchi di farina.

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  • Ma a Gaza non ci sono matrimoni da rimandare
    2025/06/21
    Benjamin Netanyahu ha spostato il matrimonio del figlio a causa della guerra, e ne ha parlato pubblicamente con toni da sacrificio personale: “È un costo per tutta la mia famiglia”, ha detto all’ospedale Soroka, colpito da un missile iraniano. Ha evocato il Blitz su Londra e il dolore di un padre costretto a rinunciare a un evento gioioso. Ma l’indignazione non è esplosa per il rinvio del ricevimento: è esplosa perché mentre Gaza è devastata, mentre il 94% degli ospedali palestinesi è stato distrutto da Israele, Netanyahu pretendeva compassione per il proprio disagio familiare.
    Lo stesso premier che ha definito “atto terroristico” il colpo iraniano sull’ospedale israeliano – un singolo missile con feriti ma senza vittime – ha autorizzato una campagna militare che ha raso al suolo strutture sanitarie, ambulanze, reparti neonatali, come attestano l’OMS e l’OHCHR. Israele si indigna quando subisce, ma rivendica “necessità militare” quando bombarda. È l’architettura retorica del doppio standard: il diritto internazionale vale solo se protegge se stessi, non se accusa.
    Così, mentre l’esercito israeliano è accusato da AP e Haaretz di usare “scudi umani” palestinesi in modo sistematico – la cosiddetta “procedura zanzara” – Tel Aviv continua ad accusare Hamas di fare lo stesso, giustificando i propri crimini. Il diritto, la morale, persino la sofferenza diventano strumenti da impugnare solo se servono a rafforzare una narrativa. Ed è questa manipolazione sistematica che mina ogni pretesa di legittimità. Ma a Gaza non ci sono matrimoni da rimandare: ci sono bambini da seppellire e ospedali da scavare sotto le macerie.

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  • Non permettere che Gaza sia uno sfondo
    2025/06/20
    A Gaza, oggi, sono morti altri diciotto palestinesi. Alcuni erano in fila per ricevere aiuti umanitari, altri dormivano in tenda. L’ospedale Al-Quds ha ricevuto oltre 140 corpi in 24 ore e curato 560 feriti. La rete è ancora isolata nel sud della Striscia per il secondo giorno consecutivo, colpita da un raid mirato all’infrastruttura. Queste notizie, che fino a una settimana fa avrebbero spalancato aperture e indignazione, ora faticano a guadagnare spazio tra le righe dei dispacci, soffocate dalla nuova centralità iraniana.
    La quotidianità dell’orrore a Gaza non è diminuita. È diventata abitudine. E l’abitudine, si sa, è l’anticamera dell’indifferenza.
    Nel gioco ottuso delle gerarchie geopolitiche, il massacro a Gaza sembra declassato a “danno collaterale prolungato”, persino mentre Israele estende i bombardamenti su Rafah, Khan Younis, Gaza City. Le stesse zone, gli stessi obiettivi civili, gli stessi corpi mutilati nei sacchi di plastica. Il ragazzo che urla disperato accanto al cadavere del padre ucciso in fila per un pacco alimentare, oggi, non fa più notizia.
    Il mondo guarda altrove. E così facendo, lo legittima. Legittima la logica per cui una strage, se reiterata abbastanza a lungo, smette di essere una notizia. E diventa routine.
    Accettare che Gaza resti uno sfondo silenzioso mentre si negozia tra Teheran e Tel Aviv significa accettare che il dolore palestinese valga meno. Gaza non è la scenografia dei potenti del mondo. Gaza non può divenire l’ennesima guerra a bassa intensità mediatica e politica. La normalizzazione dell’orrore è la più subdola delle complicità: quella che si nasconde dietro lo sguardo distolto.

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  • Gaza è il nostro test morale. E lo stiamo fallendo.
    2025/06/19
    Mentre le sirene suonano a Teheran e i missili infiammano le prime pagine, Gaza scompare. La crisi umanitaria più grave del XXI secolo — 186.000 morti stimati, tra cui decine di migliaia di bambini — è stata scalzata da una guerra “più leggibile”, tra due Stati sovrani, più comoda da raccontare. L’IDF definisce Gaza “fronte secondario”. I media obbediscono.
    Dall’Angelus di Papa Francesco fino all’ONU, Gaza è stata definita un test morale per l’umanità. Non per retorica, ma perché rivela chi siamo quando gli innocenti muoiono e il mondo volta lo sguardo. Lì si misura la bancarotta dell’ordine legale internazionale, il fallimento della responsabilità di proteggere, la complicità diplomatica dei governi. “Il silenzio è complicità”, dice Bassam Saleh.
    Nei talk show italiani, Gaza è ormai un’eco. Nei telegiornali, una nota a piè di pagina. Nei quotidiani, la parola “genocidio” è evaporata. C’è addirittura chi ha derubricato il tutto a “conflitto regionale”. Sui social, l’hashtag #Gaza ha ceduto il passo a #Iran, come se la carneficina fosse sospesa, come se il sangue potesse aspettare.
    Ma Gaza continua a sanguinare. È un laboratorio di disumanizzazione, dice Ahmad Amara: non solo il più grande carcere a cielo aperto del mondo, ma anche il luogo dove testiamo — e perdiamo — la nostra umanità. Ogni giorno che passa senza indignazione è un giorno in cui la brutalità diventa norma, e la dignità un’eccezione.
    Zack Beauchamp ha scritto che Gaza ci pone una domanda semplice: “Credi che sia giusto far soffrire gli innocenti in questo modo?” Se la risposta è no, allora la responsabilità comincia ora. Se la risposta è sì — o se si tace — allora non si è neutrali. Si è perduti.

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  • A Gaza la deportazione è già in corso
    2025/06/18
    Sono tornati a sparare sugli affamati. Ancora. A Khan Yunis, 74 morti e oltre 200 feriti — alcuni in condizioni disperate — mentre aspettavano un carico di aiuti umanitari. Poche ore dopo, le cifre diventano più spaventose: almeno 300 tra uccisi e feriti. Un’altra strage, un altro silenzio internazionale.
    La distribuzione del cibo è diventata un’arma non solo nella sua scarsità, ma nella sua mappa: quattro centri di distribuzione per oltre due milioni di persone, tutti collocati strategicamente per forzare la popolazione verso sud. Per ricevere aiuti, i palestinesi devono spostarsi chilometri tra macerie e mine, in piena zona militare. E spesso, come ieri, devono morire per un sacco di farina.
    Il piano è dichiarato: “riceveranno aiuti solo se non torneranno nei luoghi da cui provengono”, ha detto Netanyahu in una riunione riservata della Commissione Esteri e Difesa della Knesset l’11 maggio. L’obiettivo è svuotare il nord di Gaza. E poiché i trasferimenti non stanno funzionando come previsto, l’escalation è la risposta. Bombardare, affamare, sparare: costringere alla fuga.
    Nel frattempo, si consolidano le cosiddette “zone di concentrazione”: tre porzioni di terra, senza servizi, senza acqua, senza riparo. Se il piano andrà a compimento, 2 milioni di persone saranno stipate nel 40% del territorio della Striscia, con una densità di oltre 15.000 persone per chilometro quadrato. Il termine tecnico è “concentration zones”, usato dallo stesso esercito israeliano. Il nome storico, purtroppo, lo conosciamo: deportazione.
    La deportazione è già in corso. L’Europa tace, gli Stati Uniti firmano assegni.

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  • A Netanyahu la reputazione brucia più dei civili
    2025/06/17
    Il massacro di Gaza ha minato alle fondamenta la retorica dell’“unica democrazia del Medio Oriente”. Le immagini dei bambini affamati uccisi in fila per il cibo, degli ospedali devastati, delle fosse comuni hanno rotto il patto ipocrita tra Israele e le sue alleanze occidentali. Quando l’indignazione internazionale ha iniziato a farsi pericolosa, Benjamin Netanyahu ha spostato il mirino: non più Gaza, ma Teheran.
    L’attacco all’Iran non è soltanto un’operazione militare. È una manovra mediatica. Serve a riscrivere la narrazione: da carnefice a vittima, da Stato assediante a Paese aggredito. Così, nel cuore di un’opinione pubblica ormai stanca della complicità, Israele tenta di riprendersi la scena invocando ancora una volta la minaccia esistenziale e il diritto alla difesa.
    Ma questa volta non basta. La legittimità dell’attacco preventivo, motivato da informazioni di intelligence che nessuno può verificare, ricorda le falsità con cui fu giustificata la guerra in Iraq. Con una differenza: oggi, la credibilità degli Stati Uniti e di Israele è già logorata, e il loro doppio standard – per cui Teheran viola i trattati sul nucleare ma Tel Aviv nemmeno li firma – è diventato insostenibile.
    Netanyahu non cerca sicurezza, ma consenso. Dentro Israele, ha bisogno di guerra per mantenere il potere. Fuori, ha bisogno di alimentare il caos per sembrare l’unico in grado di governarlo. Ma il Medio Oriente non è un laboratorio per ambizioni personali. È fatto di popoli che esistono, soffrono, reagiscono. E che pagano il prezzo delle guerre usate come propaganda. Come i bambini bombardati ieri nell’ospedale pediatrico di Teheran.

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  • Colpire Teheran per zittire Gaza
    2025/06/16
    Le bombe israeliane su Teheran hanno già ottenuto il loro obiettivo: non militare, ma mediatico. Gaza è sparita. La strage di civili, i corpi tra le macerie, il buio dell'assedio, tutto evaporato dai titoli e dai vertici diplomatici. L’offensiva “Rising Lion” contro l’Iran è entrata nel ciclo globale delle notizie come emergenza assoluta, mentre a Gaza l’unico blackout che continua è quello dell’informazione.
    Lo ha detto l’esercito israeliano: “Gaza è un fronte secondario”. Tradotto: ciò che accade lì, compresi i 55.000 morti stimati e l’accusa di genocidio da parte di agenzie ONU, non merita più attenzione. La guerra è stata spostata dove fa comodo. Il governo Netanyahu ha scelto il nemico più spendibile — l’Iran — per ripulire la propria immagine, ricompattare l’opinione pubblica interna, bloccare le pressioni per un cessate il fuoco. E il mondo, obbediente, ha cambiato canale.
    Gli analisti lo chiamano “diversione strategica”. Un’operazione militare pianificata non solo per colpire, ma per distrarre. Per spegnere Gaza senza spegnere le bombe. Per deviare la condanna internazionale su un nuovo scenario e riscrivere il racconto della guerra. Netanyahu, processato per corruzione e in crollo nei sondaggi, ha bisogno del caos per restare in piedi. E il caos adesso parla persiano.
    Nel frattempo a Gaza si muore senza testimoni. L’internet è spento, i droni continuano a colpire, i soccorsi non entrano. È la guerra nel buio, mentre fuori la luce delle telecamere illumina altri orrori. Tutti scelti, mai casuali.

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