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Torino e Cultura

Torino e Cultura

著者: Carlo De Marchis
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このコンテンツについて

Podcast sulle persone che fanno cultura a Torino. Ideato e prodotto da Carlo De Marchis.Carlo De Marchis 社会科学
エピソード
  • Ep. 74: Daniele Ratti - L'imperfezione perfetta: il viaggio fotografico tra pellicola e anima
    2025/05/26

    Daniele Ratti, fotografo torinese e architetto di formazione mai professato, ha iniziato il suo percorso artistico a soli 14 anni con l'acquisto di una Rolleiflex 35. La fotografia è diventata il suo scudo contro la timidezza: "La macchina fotografica è sempre stato uno scudo, attraverso la macchina fotografica riuscivo a fare qualsiasi cosa perché è qualcosa che sta tra te e la persona."Dopo gli studi in architettura, Ratti iniziò a lavorare con i fotografi torinesi Piero Italiano e Maren Ollman: "Non c'erano sabati, non c'erano domeniche, poi si inizia sempre con i matrimoni, la più grande scuola di fotografia che c'è." Uno dei primi compiti ricevuti fu fotografare venti persone non attraenti, nude – un esercizio per "cercare il bello nel brutto" che ha segnato il suo approccio.Nel suo lavoro, Ratti persegue la perfezione consapevole che "la perfezione non esiste. La perfezione ha dentro di sé anche l'imperfezione, e l'imperfezione è quella cosa che dà poi alla fotografia un po' più di anima." Confrontando il suo approccio con quello di Mapplethorpe, tecnicamente impeccabile, sottolinea l'importanza dell'emozione oltre alla tecnica.Nonostante le critiche per la mancanza di uno stile univoco, Ratti alterna liberamente bianco e nero e colore, architettura e ritratti. Il suo legame con la pellicola rimane essenziale: "Nasco con la pellicola, per me ha quel fascino che scatto, sbaglierò, non sbaglierò, sarà come verrà... mi piace anche il fatto di essere limitato, ho 36 scatti, 2 rullini, 3 rullini." Questa limitazione impone una disciplina creativa che valorizza ogni scatto.Per il suo viaggio in Giappone, patria del suo fotografo preferito Shoji Ueda, si impose un limite: "Queste sono le mie 30 pellicole, 20 in bianco e nero, 10 a colore, punto, e me ne devo fare bastare." Una scelta che lo ha soddisfatto pienamente.Sulla dualità tra fotografo e artista, Ratti è pragmatico: "Faccio fatica a considerarmi un artista. Io faccio il fotografo. Voglio fermare quell'attimo, quel momento." Che si tratti di lavori commerciali o progetti personali, il suo approccio rimane coerente.I suoi progetti fotografici seguono tempistiche brevi: "Ho bisogno di nuove emozioni, di stimoli, e qualcosa che mi impegna per tantissimo tempo a volte mi prosciuga." La fase di realizzazione fotografica è concentrata, mentre post-produzione ed esposizione richiedono più tempo.L'11 giugno 2025 inaugurerà alle Gallerie d'Italia a Napoli la mostra "Due cuori una capanna: case e architetture dove sono state immense storie d'amore." Un progetto sviluppato in quattro anni e mezzo, dove la fase fotografica è stata breve: "Il corpus di 38-40 case ci ho messo poco a farlo. Tutto quello che viene dopo richiede molto più tempo."Il suo rapporto con Torino è profondo: "Non sono di Torino, ci vivo benissimo, ha un rapporto qualità contro tutto il resto molto alto, mi ha dato tantissimo." Dopo trent'anni in città, ha costruito una rete di relazioni efficace. "È una città dalle potenzialità immense, manca il passettino in più." Secondo lui, Torino dovrebbe "prendersi più cura delle persone che ci abitano, degli artisti."Sul ruolo della fotografia oggi, Ratti osserva: "Per la prima volta nella storia dell'umanità siamo bombardati da immagini. Non ci sono mai state così tante immagini, così tante storie." Questo comporta superficialità: "Abbiamo una soglia di attenzione minima e devi essere bravo a raccontare quello che fai, per tenere una persona anche soltanto 40 secondi davanti a una fotografia."Nell'epoca della "fast photography", l'aspirazione di Ratti è creare qualcosa di duraturo: "Io vorrei che le fotografie che faccio, non dico per sempre, però che rimanga qualcosa." Con umiltà conclude: "Non lo so se sarò fortunato, se fra vent'anni sarò ricordato o completamente dimenticato, però mi piacerebbe che una fotografia fra 50 anni... che bella questa fotografia, di chi è, poi non si ricorderanno di chi è, ma almeno la fotografia c'è."

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    22 分
  • Ep. 73: Davide Ferrario - Un percorso non convenzionale tra cinema, letteratura e arte
    2025/05/19

    Davide Ferrario si definisce "un torinese per caso". Cresciuto a Bergamo fino al 1998, oggi è considerato uno dei registi di riferimento di Torino, città che ha raccontato attraverso i suoi film. Nel dialogo con Carlo De Marchis, Ferrario ripercorre il suo percorso professionale e personale, rivelando come casualità, amore e praticità bergamasca abbiano plasmato la sua carriera.La sua formazione inizia negli anni '70 a Bergamo, in un cineforum con 6.000 soci. "Era diventato più che altro un punto d'incontro," racconta, "c'era tutta la New Hollywood, c'era Antonioni, c'era Easy Rider, quindi andavi a vedere quei film lì poi stavi fuori tutta la sera a parlarne." Questa esperienza gli permette di avvicinarsi al cinema sia artisticamente che commercialmente, distribuendo in Italia registi come Wenders e Fassbinder.Negli anni '80, diventa agente per registi americani indipendenti come Spike Lee e Jarmusch. Una svolta arriva nel 1986, quando trascorre due mesi sul set di John Sayles in West Virginia. Osservando il processo di realizzazione, si convince di poter dirigere: "Un film brutto in più lo posso fare anch'io, peggio di quello che vedo non farò." Inizia così la sua carriera con "La fine della notte".Il rapporto con Torino inizia già negli anni '70, quando frequenta la città per ragioni sentimentali. Contrariamente all'immagine di "grigia Torino degli anni di Piombo," lui ne ricorda l'energia: "Io questa città l'amavo molto perché proprio in quel conflitto c'era tanta energia." Rammenta una Torino culturalmente vivace, con la Giunta Novelli che portava la cultura in periferia.La svolta professionale e personale arriva con "Tutti giù per terra" (1997), tratto dal romanzo di Culicchia e interpretato da Mastandrea. Durante le riprese, si innamora dell'assistente scenografa, che diventerà la sua compagna. "È stato l'amore che mi ha portato qua, l'amore che ancora mi tiene ma forse anche tanto altro adesso."Ferrario descrive Torino come "camaleonte": "È una città che ha una forte identità sua ma tu attraversi una strada e cambi completamente quartiere." Nel periodo dei Murazzi, apprezza l'atmosfera della città: "Era davvero una città provinciale in senso positivo, costruivi dei rapporti umani che poi diventavano anche rapporti di lavoro e di creatività."Il legame con la città si cementa con "Dopo mezzanotte" (2004), realizzato con fondi personali, che ottiene successo internazionale. "Se andava male eravamo tutti sotto un trailer e probabilmente adesso non sarei qui a raccontare queste storie."Un aspetto fondamentale del suo approccio è il bilico tra professionalità e dilettantismo. "Io amo molto le persone che sanno fare bene il loro lavoro prima delle chiacchiere," spiega, ma rifiuta l'idea che l'identità di una persona si riduca al mestiere: "Non vuol dire appiattire la persona solo a quello." Questa filosofia gli permette di muoversi tra diversi mezzi espressivi: cinema, letteratura, installazioni.Il suo primo romanzo, "Dissolvenza al nero", nasce nel 1994 come sfida dopo aver letto un bestseller di Crichton. Quattordici anni dopo pubblica "Sangue mio", ispirato alla sua esperienza come volontario in carcere, e nel 2023 esce "L'isola della felicità", una satira su Nauru, minuscola repubblica che rappresenta una metafora della civiltà occidentale.A quasi settant'anni, Ferrario si trova in una fase curiosa della carriera, passando con disinvoltura tra diversi mezzi espressivi. Questa versatilità riflette il suo rifiuto di etichette: "Due cose fuggo come la peste: l'autobiografismo e la psicologia." Preferisce costruire la sua fiction su basi reali, su ricerche o esperienze dirette.Riflessivo sulla mancanza di utopia nel mondo contemporaneo, si considera un figlio degli anni '70: "Noi siamo cresciuti in un paese in cui non c'era il divorzio e c'era il delitto d'onore. Non si deve dimenticare queste robe qua."

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    37 分
  • Ep. 72: Alessandra Avico - La voce grave dell'orchestra: vita da primo contrabbasso
    2025/05/13

    Alessandra Avico, primo contrabbasso dell'Orchestra del Teatro Regio di Torino, racconta il suo percorso musicale in un viaggio che parte dall'infanzia fino a raggiungere l'apice della carriera orchestrale. Nata e cresciuta a Torino, Alessandra ha scoperto presto l'amore per la musica, un sentimento che continua ad accompagnarla nella sua vita professionale.La sua storia musicale inizia con il pianoforte a 8 anni e poi durante le scuole medie, uno strumento che le piaceva molto ma che non sentiva completamente suo. "Era uno strumento davvero molto interessante che però non sentivo come mio," confessa Alessandra parlando dei suoi primi approcci alla musica. Figlia d'arte – suo padre era trombonista – ha respirato musica sin da piccola, sebbene la scelta di intraprendere questa strada sia stata completamente sua.La svolta avviene quando, su consiglio della sua insegnante di pianoforte, decide di orientarsi verso uno strumento che le avrebbe permesso di suonare in orchestra. L'incontro con il contrabbasso è stato decisivo: "Il contrabbasso che era uno strumento sicuramente più suonato dagli uomini all'epoca," ricorda Alessandra, "ma questa lezione che avevo ascoltato in conservatorio in realtà era di una donna che si stava diplomando e questa cosa mi aveva veramente fatta innamorare di questo strumento."La giovane musicista prosegue gli studi al conservatorio con il contrabbasso parallelamente alle scuole medie, trovando finalmente la sua vera identità musicale. "Il contrabbasso è diventato davvero un amore, una passione," racconta con entusiasmo, "mentre il pianoforte mi piaceva tantissimo ma non era cucito su di me come strumento."Il percorso formativo di Alessandra si è rivelato impegnativo, divisa tra il liceo e gli studi al conservatorio. "La vita del musicista che vuole intraprendere una strada mirata alla professione è sicuramente difficile," spiega, evidenziando come la scuola italiana non faciliti chi vuole diventare musicista professionista. Dopo il diploma al conservatorio, decide di perfezionarsi all'estero, a Ginevra, dove si confronta con un ambiente internazionale che le apre le porte al mondo della musica professionale.Le prime audizioni arrivano presto: Teatro alla Scala, La Fenice, il Maggio Fiorentino. "Questo sarà il mio mestiere, mi piace, è molto faticoso ma è bellissimo perché è la passione che si fonde con il lavoro," riflette Alessandra sulla sua scelta professionale. Dopo alcune esperienze all'estero, comprende che l'Italia è "il posto del suo cuore" e torna nel suo Paese.Il 2019 segna un punto di svolta nella sua carriera con la vittoria del concorso da contrabbasso di fila all'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. "Questo per me è assolutamente un sogno, un sogno che si realizza," afferma con orgoglio. "Era anche un po' il sogno di mio papà... vedere me che mi realizzavo e che a 21 anni riuscivo a vincere il concorso in Rai è stata sicuramente una cosa che l'ha fatto essere felicissimo."Dopo cinque anni in Rai, Alessandra vince il concorso al Teatro Regio dove attualmente ricopre il ruolo di primo contrabbasso, "un po' il culmine di quello che si può raggiungere a livello del musicista d'orchestra." Nel descrivere il mondo orchestrale, Alessandra lo definisce "un po' antico, un mondo gerarchico" ma sottolinea come questo non implichi valori diversi tra i musicisti, piuttosto ruoli ben definiti all'interno di un sistema complesso.L'orchestra rappresenta per lei "un mondo a sé" dove "se qualcosa non funziona da parte di chiunque cade tutta la baracca." È proprio questa dimensione collettiva che Alessandra apprezza maggiormente: "È proprio un modo di fare musica assieme. E lo trovo una cosa bellissima, riuscire a fare qualcosa di bello tutti assieme."La vita del musicista d'orchestra, e in particolare di chi suona al Teatro Regio, è caratterizzata da orari irregolari e un'attitudine "notturna"

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    24 分

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